Capitolo IV
Il concetto di Male nel diritto italiano
Il diritto interno in Italia è frutto di un’evoluzione giuridica che parte dal diritto romano, passa attraverso l’influenza della Chiesa cattolica per approdare, solo recentemente, ad una visione laica e costituzionalmente orientata. Il Male è considerato un concetto oggettivo dal diritto ed è tale perché viola una norma penale. Vi è, in altri termini, una criminalizzazione del Male attraverso delle scelte legislative che, come si è visto con l’esempio dell’adulterio, variano nei tempi e nei modi. Il diritto contrappone al Male, giudicato tale per volontà del Legislatore, un altro Male che, a seconda delle teorie prevalenti, ritiene preventivo, nelle forme della prevenzione generale e speciale, o retributivo. Le modalità e le forme in cui si realizza questo Male inflitto a chi ha violato la norma penale hanno fondamento nelle teorie della pena che sono diverse e influenzano l’irrogazione della “pena”, che invece sembra l’unico elemento stabile e mai messo in dubbio.
Le principali teorie della pena che si sono sempre battute per giustificare l’esigenza e la coerenza di un malum pro malo sono tre: la teoria retribuzionista (e, più recentemente, neo-retribuzionista), la teoria della prevenzione generale e la teoria della prevenzione speciale.
Nel primo caso la pena ha lo scopo di punire il colpevole per il male provocato dalla sua azione illecita. L’idea della giusta retribuzione del male ha attraversato nei secoli la civiltà occidentale, ed è storicamente agganciata a concezioni della giustizia che trovano fondamento nella religione o in un mondo di valori etici considerati universali e non negoziabili. L’universo morale della giusta retribuzione (la legge del contrappasso) è rappresentato in modo esemplare nella Divina Commedia, nella sua proiezione metafisica e religiosa. In versione secolarizzata, lo si trova espresso da grandi maestri della filosofia moderna.
Kant ha influenzato moltissimo le elaborazioni della “idea base retributiva”, affermando che punire il colpevole risponde ad un imperativo categorico che trova la sua giustificazione nella coscienza umana e non in una qualsiasi utilità sociale esterna. L’uomo è responsabile delle sue azioni ed è quindi giusto che, per il bene e per il male, gliene derivi la giusta conseguenza. La pena viene applicata per effetto del reato commesso. In quest’ottica, la negazione di un Male sarebbe data dall’attivazione di un altro Male, che si differenzierebbe dal primo solo per il suo essere una sorta di riflesso.
Hegel riteneva, invece, che “il concetto della pena si ricava dalla negatività stessa del delitto e consiste nel legame necessario per cui esso, come volontà in sé negativa, implica la sua stessa negazione, che appare come pena”. Ciò che conta per lui è il significato di ritorsione insito nella pena prescindendo dalla quantità della stessa: la “qualità o gravità del delitto è variabile secondo la situazione della società civile… è in questa situazione che risiede la legittimità sia di punire con la morte un furto di pochi soldi o di una rapa, sia di infliggere una pena mite a un furto che implica valori cento e più volte maggiori di quello”. Il problema di fondo sta nel fatto che non esiste un sistema – sia esso un Bene o un Male – che possa annullare quello che è già successo. Dunque, è l’idea stessa del perseguire la negazione di ciò è stato che è di per sé pericolosa, perché fa sorgere la tentazione di definire la stessa sofferenza della pena, proprio in quanto malum pro malo, come un bene, cioè come qualcosa che intrinsecamente abbia valore morale.
La teoria retributiva della pena, sia pur criticabile in un contesto costituzionale, quale quello italiano che spinge verso la rieducazione del reo, ha, però, permesso di ottenere autentiche conquiste di civiltà soprattutto sotto l’aspetto della retribuzione giuridica; essa infatti individua il fondamento della pena non nella coscienza umana bensì nell’ordinamento giuridico, con la conseguenza che la sanzione non serve solo a retribuire il male commesso ma anche a riaffermare l’autorità della legge che è fonte della sanzione stessa. Inoltre nelle sue forme più moderne ha contribuito all’affermazione di alcuni principi fondamentali: a) la personalità della pena, per cui il corrispettivo del male non può che essere applicato all’autore del male stesso; b) la determinatezza della pena che concerne la verificabilità empirica e processuale del fatto delineato dalla norma incriminatrice; c) la proporzionalità della pena per cui la legge deve concretamente prevedere e “determinare” una pena “proporzionata” al male commesso.
Un altro approccio al problema della “pena” è quello della prevenzione generale. La minaccia di pena viene vista come una tecnica finalizzata alla prevenzione di fatti e comportamenti previsti come reato e, di conseguenza, ritenuti dannosi o pericolosi per gli interessi dei singoli o della società, e pertanto da vietare. Già Platone diceva che “chi cerca di punire secondo ragione, non punisce a motivo del delitto trascorso ma in considerazione del futuro, affinché non commetta ingiustizia né quello stesso che viene punito, né altri che veda costui punito”; il filosofo aveva intuito che non si tratta semplicemente di rispondere con la pena a reati già commessi, ma di assicurare, nella misura più ampia possibile, l’osservanza dei precetti da parte della generalità dei destinatari. In tal modo i cittadini dovrebbero diventare partecipi dei valori sociali su cui si fonda la comunità e la legge penale.
La prevenzione generale spiega il diritto penale politicamente, come strumento razionalmente plasmabile in vista di scopi concernenti la vita dello stato. La minaccia di pena, che collega alla possibile commissione di un atto antigiuridico la prospettiva di un male sensibile, può funzionare a condizione “che il male minacciato sia così grande, che il timore di esso superi il desiderio di quell’atto, che la rappresentazione del male superi quella del bene da ottenere”. Scopo della minaccia di pena sarebbe dunque l’intimidazione e, suo fondamento giuridico, la difesa. Conseguenze sono: la deterrenza per la paura del Male maggiore a cui si sarà soggetti e l’effettività della pena in mancanza della quale verrebbe meno l’effetto deterrente. Perché il diritto penale funzioni effettivamente come tecnica preventiva di organizzazione e di disciplina dei comportamenti, non dipende solo dall’esistenza di una norma scritta o pensata in un testo di legge; nell’ottica preventiva, si pone il problema di assicurare le condizioni di osservanza della legge affinché possa funzionare da deterrente, di conseguenza occorre un sistema normativo che ponga i precetti e le sanzioni corrispondenti, mediante il principio di legalità: nullum crimen, nulla poena sine previa lege poenali. I precetti hanno però un senso in relazione a scelte di comportamento sulle quali la minaccia penale possa influire. I destinatari devono quindi essere uomini capaci di comprendere i precetti, di essere influenzati dal messaggio insito nella norma penale, e di agire in conformità; la condizione pratica perché ciò avvenga è che le norme penali siano conosciute.
Per funzionare come deterrente, la minaccia legale di pena deve essere anche credibile. Non solo l’applicazione delle sanzioni ai trasgressori della legge, ma già il funzionamento preventivo del precetto trae con sé l’esigenza che vi siano apparati preposti al controllo dei comportamenti e ad assicurare l’applicazione della legge, così da rendere credibile la minaccia. Nessuno dei presupposti fattuali della deterrenza, dunque, è assicurato dalla semplice esistenza della legge penale.
La prevenzione generale oltre ad avere un valore di deterrenza ha anche un’accezione positiva. Il diritto penale viene per così dire inserito in una più comprensiva teoria dell’educazione collettiva o socializzazione, piuttosto che delle cause o motivazioni individuali al delitto. L’autorità e la forza esterna del diritto servono a confermare valori già acquisiti e radicati nei processi di socializzazione degli individui. L’affermazione della generale validità di norme di comportamento, convalidata dall’inflizione della pena nei casi di trasgressione, contribuirebbe alla rimozione radicale degli impulsi devianti, alla interiorizzazione dei valori legali in strati profondi della personalità, o quanto meno ad una abitudine all’osservanza delle leggi, che scarta in genere le alternative devianti senza nemmeno bisogno di riflessione cosciente.
In definitiva l’efficacia deterrente della legge penale è il prodotto di numerosi, variabili, fattori. Tale efficacia può essere diversa in relazione a diversi tipi di reato e a diverse categorie di autori; in particolare:
– le motivazioni individuali possono indurre diverse categorie di soggetti al compimento di determinante condotte illecite: la minaccia penale, se percepita come seria, può funzionare meglio in relazione a scelte dettate da un calcolo razionale difficilmente in ordine a quelle scaturenti da spinte emotive;
– l’accettazione o meno dell’ordinamento giuridico o di singoli istituti, da parte dei soggetti tenuti a rispettarli può influenzarne le scelte in maniera più forte rispetto alla paura della pena;
– la maggiore o minore misura del funzionamento della legge repressiva verso i trasgressori e l’effettiva applicazione delle sanzioni possono, infine, influire sull’efficacia preventiva della norma influenzando il comportamento di chi intenda sottrarvisi.
Ad uno sguardo d’insieme, nell’ottica della prevenzione generale, i problemi della legittimazione e dei limiti della potestà punitiva, e della concreta conformazione degli istituti penali, si ripropongono in termini ben più complessi che nello schema tutto ideologico della pena retributiva. Più complessi sia perché legati alla dimensione fattuale dell’efficacia e delle condizioni di efficacia preventiva e repressiva degli istituti penali, che sul piano dei valori, ed infatti una concezione relativistica o finalistica delle istituzioni penali ne sottende un possibile modello di funzionamento accettato da tutti ma non giustifica qualsiasi strumento atto a coartare la volontà liberamente espressa dei cittadini. Deterrenza e prevenzione dunque sui valori ampiamente condivisi e non su valori da imporre.
Rispetto alle due concezioni appena delineate, la teoria della prevenzione speciale, si è affermata nel secolo scorso con la Scuola positiva e muove da un piano opposto: l’atteggiarsi del singolo, e non della società, nei confronti della minaccia della pena. Sia sul piano teorico che eminentemente pratico, questa teoria costituisce una netta rottura con le altre, in quanto, da un lato, vengono poste in crisi le tre grandi conquiste di civiltà ottenute con la teoria retributiva (personalità, determinatezza e proporzionalità); dall’altro lato, si sacrificano i fini di intimidazione perseguiti dalla prevenzione generale.
Il complesso di misure terapeutiche e rieducativo-risocializzatrici volte ad impedire che il singolo cada o ricada nel reato – e che costituiscono l’oggetto della prevenzione speciale – viene attuato rivisitando il principio di proporzionalità e quindi adeguando la pena non più alla gravità del reato e alla colpevolezza bensì alla personalità dell’autore; mettendo in discussione il principio di determinatezza, in quanto non è possibile sapere “a priori” quando la pena avrà ottenuto la risocializzazione del reo; demolendo il principio di inderogabilità, in quanto la pena viene considerata suscettibile di modificazioni quantitative e qualitative nell’arco della sua espiazione; infine trascurando gli intenti intimidatori, poiché in questo caso la prevenzione è realizzata quasi in concomitanza del singolo atto criminoso: si parla infatti di prevenzione speciale post delictum per impedire che chi ha commesso un reato ne commetta altri; di prevenzione speciale ante delictum per evitare che un soggetto, in ragione della sua concreta pericolosità, cada nel delitto.
In definitiva, al carattere insussistente e assoluto della pena in funzione retributiva o general-preventiva viene sostituito quello della “processualità” della pena, considerando questa come il punto di partenza di un più generale trattamento di risocializzazione del condannato in aderenza al principio di rieducazione del reo contenuto nell’articolo 27 della Costituzione.
Giuseppe Motta
(continua)
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