il concetto di Male in filosofia
L’attenzione ai concetti di Bene e di Male risale al mondo antico e medievale. Già Platone nel IV secolo a.C. sosteneva che il Bene consiste in “ciò che dà verità agli oggetti conoscibili”; il Bene è la realtà suprema, è una forza in grado di rivelare le cose, pur rimanendone al di sopra. In qualità di antitesi il Male non può che essere interpretato come il non essere, negazione assoluta del Bene e quindi solo un “accidente della realtà”. Secondo Aristotele, nella scia di Platone, il Bene è allo stesso tempo causa assoluta di tutte le cose e causa finale, viceversa, il Male, consiste nella privazione della tendenza di tutte le cose verso quella causa finale che è il Bene. Entrambi riguardano solo gli esseri che sono capaci di scegliere in quanto oggetto di volontà e rientrano nella sfera della morale.
Per Epicuro, la presenza del Male nel mondo è la prova che gli dei si disinteressano dell’umanità: altrimenti, se gli dei volessero togliere il Male dal mondo, ma non potessero farlo, sarebbero impotenti, o, se lo potessero ma non lo volessero, sarebbero maligni. Gli stoici, invece, ritenevano che ciò che da un punto di vista particolare appare come un Male, contribuisca in realtà alla perfezione complessiva del tutto. In un mondo tutto positivo anche il Male è necessario per l’esistenza del Bene, secondo la grande legge dei contrari per la quale il Bene non potrebbe esistere, e neppure essere pensato, senza una qualche presenza del Male.
Sant’Agostino (Agostino da Ippona), invece, in un primo momento sosteneva che Dio ha creato l’essere, cioè il Bene, il Male quale suo contrario è quindi “non essere”. Il Male in sé non esiste, ma è l’uomo che, grazie al libero arbitrio, ha la possibilità di scegliere tra il Bene ed il Male; la scelta del Male è influenzata da due motivi: perché desidera un’incondizionata autonomia di scelta per emanciparsi da Dio e perché ama il mondo materiale. Dopo aver abbandonato il manicheismo, Agostino distinse il Male in tre categorie: il Male metafisico-ontologico, il Male morale e quello fisico. Il primo scaturisce dal fatto che nel cosmo non esiste il Male in sé ma gradi inferiori di essere rispetto a Dio, dipendenti dalla limitatezza delle cose create, dai difetti insiti nella materia: proprio da questo deriva il Male. Il secondo rappresenta il peccato; la volontà dell’uomo dovrebbe tendere al “bene sommo”, ma poiché esistono molti beni, l’uomo può tendere a questi, preferendo la creatura al Creatore, i beni inferiori a quelli superiori, la materia allo Spirito. Il Male fisico, infine, è quello del corpo o dello spirito: la malattia, la sofferenza, i tormenti dell’uomo e la morte, questi sono la conseguenza del peccato originale.
Tommaso d’Aquino giunge ad un’interpretazione equilibrata della struttura del Male. Buono in senso assoluto è solo l’Essere pienamente in atto, totalità di essenza e di esistenza. L’atto di essere è il venire all’esistenza di ogni forma o natura, di ogni ente. L’essere sta all’essenza come l’atto sta alla potenza, per cui la limitatezza di ogni essere determinato non rende ragione dell’Essere che lo costituisce. Ogni essere finito è creato da Dio, che è la causa essendi, il creatore di ogni realtà. D’altra parte gli esseri finiti ricevono l’atto di essere partecipando in misura parziale e imperfetta, secondo i limiti della propria natura, all’essenza. La finitezza degli uomini creati da Dio non è Male in sé, ma è la condizione, la possibilità dell’imperfezione da cui scaturisce il Male.
Spinoza, nella seconda metà del XVII secolo, operò una feroce critica all’antropocentrismo che caratterizzava i concetti di Bene e Male dei secoli precedenti. Le nozioni di Bene e Male, merito e peccato, scaturiscono, infatti, dalla tendenza ad attribuire a Dio un agire modellato su quello umano. Quindi, dietro alle nozioni metafisiche di Bene e Male, si nasconde la superbia dell’uomo, erroneamente convinto della propria centralità nel mondo. Spinoza sosteneva che dal punto di vista della ragione si debbano considerare illusorie le distinzioni di Bene e Male. Il problema, quasi in contemporanea, venne studiato approfonditamente da Leibnitz che coniò il termine “teodicea” ad indicare la dottrina della giustizia di Dio. La giustizia divina può essere dimostrata solo passando attraverso la comprensione dei motivi per cui esiste il Male nel mondo. Secondo il filosofo il Male è una realtà ontologica ma non è l’essenza del mondo. Solo Dio lo è. Egli è giusto ed ha creato il migliore dei mondi possibili e la causa del Male risiede nell’imperfezione originaria della creatura, che, in quanto “creata”, è per sua essenza limitata ed avendo, quindi, un sapere parziale tende ad ingannarsi ed a cadere in errore. Leibnitz accetta la tripartizione di Agostino da Ippona tra Male ontologico, morale e fisico, il primo scaturisce dall’imperfezione dell’uomo mentre gli altri, sebbene non voluti da Dio, spesso sono il mezzo per raggiungere un Bene.
Per Thomas Hobbes l’uomo definisce Bene l’oggetto del suo desiderio e Male l’oggetto della sua avversione. Per il filosofo questi termini, sono sempre adoperati in relazione alla persona che le usa, non essendoci niente che sia Bene o Male in senso assoluto e nemmeno una regola che si possa ricavare dalla natura stessa delle cose; solo qualora vi sia uno Stato legalmente costituito, la regola deriverà dalla persona che lo rappresenta, o da un arbitro o giudice eletto ed accettato, la cui decisione verrà innalzata a regola del Bene e del Male.
Nel periodo illuminista il problema della teodicea perderà gran parte dei suoi riferimenti normativi, in relazione all’idea cristiana di Dio, per assumere connotati storico-antropologici. La tendenza è quella di sostituire al problema della giustificazione divina quello della natura come provvidenziale armonia del tutto. Rousseau sosteneva che l’uomo è buono per natura; la corruzione e l’inclinazione al male vengono dal di fuori ed hanno origine dagli Ordinamenti giuridici delle società. Una volta che questi siano stati eliminati, il male sparirebbe e subentrerebbe il regno della beatitudine e della felicità. Il pessimismo cristiano, che si esprime nell’idea del peccato originale, è così rovesciato e sostituito da un ottimismo antropologico. In quest’ottica un problema della “salvezza personale” non dovrebbe esistere più.
Kant era convinto che i soli oggetti di una ragion pratica fossero il Bene e il Male. Col primo intendeva un oggetto necessario della facoltà di desiderare, col secondo un oggetto necessario della facoltà di disprezzare, ma entrambi secondo il solo principio della ragione. Bene e Male non sono realtà o irrealtà indipendenti, ma si attengono alla facoltà di desiderare dell’uomo. Kant introdusse anche il concetto di “Male radicale”: un’inclinazione naturale al Male che è alla base del comportamento di tutti gli esseri razionali finiti e che porta, quindi, ad allontanarsi dalla legge morale. Il filosofo scriveva a tal proposito: “l’uomo è consapevole della legge morale… La frase: l’uomo è cattivo per natura significa solo che tale qualità viene riferita all’uomo, considerato nella sua specie…nel senso che… si può presupporre la tendenza al male come soggettivamente necessaria in ogni uomo, anche nel migliore. Ora, questa tendenza bisogna considerarla essa stessa come moralmente cattiva, e perciò non come una disposizione naturale, ma come qualche cosa che possa essere imputato all’uomo, e bisogna quindi che essa consista in massime dell’arbitrio contrarie alla legge… Ammesso tutto ciò, potremo allora chiamare questa tendenza una tendenza naturale al male, e, poiché bisogna pur sempre che essa sia colpevole per se stessa, potremo chiamarla un male radicale, innato nella natura umana”.
In Hegel il Bene sarebbe libertà realizzata, lo scopo ultimo del mondo; il Male, al contrario, la sua totale negazione; risulta evidente come la concezione hegeliana sia esattamente l’inverso della concezione metafisica di Bene e Male che prescinde del tutto dall’esperienza e quindi, se vogliamo, da qualsiasi aspetto pratico. Il Bene non viene desiderato in qualità di perfezione della realtà, anzi: esso è perfezione e realtà proprio perché viene desiderato, in tal senso il Male è funzionale al Bene. Il problema del Male si inquadra esattamente nel quadro generale della dialettica o sintesi degli opposti con i suoi tre momenti di tesi, antitesi e sintesi, per cui il pensiero dell’unità non è inconciliabile con quello dell’opposizione e l’opposizione può e deve essere pensata nella forma del concetto, che è suprema unità. In questo quadro il Male è il momento necessario della soggettività.
Nella filosofia di Nietzsche ricorre spesso il concetto che l’uomo debba vivere “al di là del bene e del male”, quasi al di fuori di ogni etica precostituita. Quando parliamo di Bene e Male in Nietzsche non dobbiamo sicuramente riferirci ad una valutazione di tipo morale, in quanto egli ritiene che la moralità non sia qualcosa di originario, ossia non è sempre esistita, a differenza della valutazione in generale, essendo l’uomo “un essere che valuta”. Per dimostrare la necessità di una demolizione del codice di valori occidentali e di una nuova elaborazione di questi, Nietzsche si serve della genealogia della morale, proprio per “delegittimare” la morale stessa, dimostrando come questa abbia nel suo percorso delle incongruenze. Egli sostiene che ogni nuova idea che si presenta estranea al pensiero morale del potere viene immediatamente classificata come Male in contrapposizione al Bene che coincide con l’ideologia dominante. Nel passato, afferma il filosofo, i concetti di Bene e Male non coincidevano con buono e cattivo, anzi Bene è ciò che permette all’uomo di affermare se stesso, ossia di avere il coraggio di osare, di affermarsi sugli altri uomini, anche schiacciandoli, se necessario; nel suo percorso non vi è cattiveria, ma solo energia, “volontà di potenza” che lo spinge verso il Bene che è l’affermazione di sé. Il Male è rappresentato dalla vita degli uomini all’interno di un gruppo in cui si accettano e riconoscono determinati canoni e stereotipi, ciò, dunque, porta all’omologazione ed all’anonimato.
Quello che ha portato Bene e Male a subire un fraintendimento nel loro significato originario è stata la posizione dei più deboli, che ad avviso del filosofo, sono incapaci di realizzare se stessi attraverso l’autoaffermazione nei confronti dei più forti e quindi tendono a considerare i forti (coloro che si sono affermati) cattivi. Secondo Nietzsche è stato con il cristianesimo che si è avuta questa sorta di “rivolta dei deboli”, che, rifugiandosi in sentimenti come la pietà, l’umiltà ed il timore, hanno giustificato la propria incapacità di successo. Così si sono aperte le porte della valutazione morale, alla quale Nietzsche oppone la figura del superuomo, il quale è colui che riesce a vivere nonostante la morte di Dio.
Per Martin Heidegger il destino stesso della metafisica occidentale, che aveva portato all’estremo la dimenticanza del senso dell’essere, era costituito dal dominio planetario della tecnica, per sua essenza distruttivo e tale da rendere praticabile l’annientamento dell’essere. Ma Heidegger era troppo compromesso con il nazismo per essere credibile su tale argomento, anche perché dopo la seconda guerra mondiale tutto il dibattito filosofico sul “Male” si è spostato su quello che fu appunto considerato il “male assoluto”, il nazismo, e sul suo prodotto, l’olocausto. Sulla sua scia comunque, consensualmente o in forma radicalmente polemica, si rifanno quasi tutti coloro che ritrovano il Male nell’essenza stessa della razionalità occidentale e che, in forme diverse e tutte peculiari, da Adorno a Bauman sostengono che il totalitarismo e Auschwitz non siano stati il risultato di un imbarbarimento demoniaco, né che il Male si sia prodotto per un rigurgito di irrazionalismo arcaico; ma sono, bensì, l’esito fisiologico di una razionalità che, per il modo in cui si è storicamente formata, non poteva non avere l’olocausto come propria realizzazione piena.
Per Theodor W. Adorno chi esorta al Bene fa parte di una ristretta cerchia di eletti che si impegnano a praticare una via difficile e hanno perciò il diritto di guardare la moltitudine con disprezzo. La via del Male sarebbe invece una via aperta alla maggior parte degli individui perché non solo conosce le debolezze umane, ma le perdona e le ammette facendo leva sul principio: “nolite iudicare ut non iudicemini in quo enim iudicio iudicaveritis”. Secondo Adorno gli uomini sono incapaci di essere liberi perché, pur di non assumersi la responsabilità delle loro scelte, preferiscono abbandonarsi a qualcuno che decida per loro. Il vero portatore di Bene dunque è colui che si impegna a rendere liberi gli uomini, cercando di diffondere tra essi un sentimento di fraternità; l’individuo volto al Male tenta invece di renderli dipendenti dalla sua figura, cercando di lasciarli in quello stato di fanciullezza che non gli consente di essere autonomi.
Nel suo “Modernità liquida” Zigmunt Baumann sottolinea come le categorie del Bene e del Male oggi non siano individuate, ma prendano forma dal “recipiente”, che le contiene, entro un assoluto relativismo. La modernità ha cancellato la differenza tra spontaneità e libertà con conseguenze gravi anche a livello psicologico, non solo morale, perché certi disturbi sono generati da una assenza di identità. L’identità dell’uomo non si costruisce senza forme, cioè senza modelli e disciplina, dove il problema del Male è il mistero di una mancata compattezza della persona, di un sicuro riferimento all’origine: non è l’uomo padrone della sua origine né del Bene e del Male. Baumann nel suo volume le sorgenti del Male approfondisce il problema in relazione alle teorie del XX secolo, analizzando alcuni aspetti che hanno portato all’Olocausto ed ha tentato di dimostrarne l’inesattezza e la incompletezza. Partendo dalle affermazioni di Adorno sulla “personalità autoritaria” che avvalora l’idea di una autoselezione dei malfattori determinata da predisposizioni naturali, più che culturali, del carattere individuale e, passando per il comportamentismo psicologico che si basa sul “condizionamento comportamentale”, per cui la collocazione sociale o determinate circostanze spingono individui “normali” a partecipare alla perpetrazione di gesta malvagie, analizza le tesi di Hanna Arendt sulla “banalità del Male”, che giunge alla conclusione che chi compie il Male spesso non è né un mostro né un sadico ma terribilmente, spaventosamente “normale”. Da una tale prospettiva, il filosofo, giunge ad estirpare il Male dall’Io dell’essere umano, per imputarlo a dati ad esso esterni, all’inarrestabile progresso della tecnica, in chiave heideggeriana, che ha reso l’individuo straordinariamente potente, ma, probabilmente cieco di immaginazione e fantasia, ed incapace di percepire i segnali del mondo.
L’esistenzialismo ontologico di Luigi Pareyson cerca una risposta alla “questione immane e sconvolgente” del male e del dolore. In un’originale rilettura dei filosofi razionalisti, constata che la filosofia ha ripetutamente cercato di esorcizzare o accantonare il problema del male, il Male viene in questo modo inserito in un quadro più ampio, nel quale viene minimizzato o addirittura eliminato. I tentativi di soluzione sono stati molteplici: la conoscenza dialettica del male come momento necessario al trionfo del progresso; il trionfo del proprio io, reso indifferente alle vicende dell’umanità; la percezione della realtà, quale risultato di calcoli probabilistici dove il male dipende dal risultato; l’esaltazione di un’impersonale volontà di potenza o di pulsioni inconsce, in cui sono diluite e sommerse le responsabilità individuali, o, infine la risposta classica secondo cui il male è privazione di bene o assenza di essere; ciascuna soluzione, seppur cogliendo una parte del problema non è in realtà risolutiva. Per l’autore è auspicabile che la filosofia abbandoni la pretesa di voler spiegare tutto razionalmente e rinnovi i suoi contenuti attingendo al mito, cioè all’arte e alla religione, nelle quali il male e il dolore sono ben presenti In definitiva, in una società che sembra in preda al Male assoluto, Pareyson vuole ad ogni costo evitare che il male venga cristallizzato in un concetto teorico e irreale: “Il male non è assenza di essere, privazione di bene, mancanza di realtà, ma è realtà, più precisamente realtà positiva nella sua negatività. Esso risulta da un positivo atto di negazione: da un atto consapevole e intenzionale di trasgressione e rivolta, di rifiuto e rinnegamento nei confronti di una previa positività; da una forza negatrice, che non si limita a un atto negativo e privativo, ma che, instaurando positivamente una negatività, è un atto negatore e distruttore. Il male va dunque preso nel significato più intenso della ribellione e della distruzione”. Il filosofo considera, dunque, il Male come indissolubilmente legato alla libertà e, anzi, originato da essa; sempre e soltanto come esistenzialmente vissuto, subito o perpetrato dall’individuo; la sua energia affonda le radici nel cuore stesso della realtà e dell’uomo. In altri termini, finché il pensiero è ancorato all’idea della necessità, e dell’essere come qualcosa di oggettivo a cui far risalire le varie idee umane di perfezione, il male non può esistere, perché tutto è razionale, necessario e giustificato, tutto è com’è perché così deve essere. Ciò che avviene nell’ontologia della libertà per Pareyson è che ogni atto è atto di libertà, è scelta, e la scelta può avvenire per l’essere, o contro l’essere; il Male reale non può semplicemente rappresentarsi come semplice privazione dell’essere, ma come consapevole rivolta contro l’essere. Scegliendo di esistere Dio sceglie il bene, e scarta il male (non esistere); Dio esclude per sempre la possibilità del male che gli si presenta; Dio vince per sempre il male. Ma questo male possibile è come un’ombra in Dio, nel senso che è una possibilità sopita pronta ad essere ridestata. Sarà l’uomo, liberamente, a cogliere questa possibilità, a ribellarsi a Dio, a realizzare realmente il male che finisce per insediarsi nel cuore della realtà. Dio è l’origine del male non perché lo causi o lo faccia, ma perché gli apre la via, ne permette la sua realizzazione nel momento in cui lascia lo spazio alla libertà umana e ne rispetta il suo esercizio.
Con queste affermazioni Pareyson, in un certo senso, chiude il cerchio tornando alla concezione platonica di Male. Egli, infatti, si pone al di sopra dell’alternativa esistente tra Platone e la metafisica tradizionale. Il primo afferma che Dio, essendo buono e non potendo essere causa del male, non è causa di tutto. La seconda, invece, afferma che Dio è causa di tutto, ma poiché è buono, non può essere causa del male, che viene considerato non come realtà, ma come non essere o privazione di essere. Pareyson, con un discorso che si spinge molto più in avanti, afferma, invece, che Dio, essendo origine di tutto, è anche origine del male, ma non per questo ne è l’autore, poiché il male deve essere distinto tra possibile e reale ed in Dio il male è presente solo come possibilità è l’uomo, con le sue libere scelte, a farlo diventare realtà.
Giuseppe Motta
(continua)
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