Introduzione*
Ne “i fratelli Karamazof”, Fëdor Dostoevskij fa raccontare ad Ivan la leggenda del Santo Inquisitore, un racconto, fatto al fratello Aleksej, sulla libertà e sulla seduzione del potere. Il grande Inquisitore parla al Cristo tornato sulla terra nel XVI secolo ed imprigionato dall’inquisizione. Egli spiega come il suo compito sia quello di “liberare” gli uomini da quella “libertà” che il Cristo ha predicato e che si è rivelata una zavorra troppo pesante da sostenere. La stessa possibilità di scegliere tra bene e male si è rivelata un enorme problema perché gli uomini hanno dimostrato di non essere in grado di usare tale libertà nel modo giusto. Il racconto culmina nella frase del Santo inquisitore che afferma: “…E tutti saranno felici, milioni di esseri, salvo i condottieri. Giacché noi soli, noi che custodiremo il segreto, noi soli saremo infelici”.
Secondo l’interpretazione classica, il Grande Inquisitore vuol essere la rappresentazione del male, mentre Cristo, ovviamente, è quella del bene. In un interessante saggio di Franco Cassano, “l’umiltà del male”, il sociologo dà, invece, un’interpretazione molto più complessa del racconto; egli, infatti, sostiene che quello descritto da Ivan, attraverso la figura del Grande Inquisitore, è un male che conosce profondamente la natura degli uomini e fonda il suo potere nella capacità di coltivarne le debolezze. Nella partita contro il bene, grazie alla sua “umiltà”, cioè alla capacità di non ergersi mai a censore della morale comune, il male parte sempre in vantaggio poiché accetta la natura umana così come essa si manifesta, assecondandola e potenziandone la fragilità. Se il bene incarna il dover essere, il male rappresenta l’essere; perciò non richiede agli uomini impegnativi percorsi di redenzione. L’attenzione del “male” per i più deboli non deriva da un sentimento di solidarietà, ma dalla volontà di usare gli uomini “per i propri disegni, di riprodurne la soggezione, di mantenerli per sempre fanciulli e dipendenti da sé”.
L’autore in un ulteriore approfondimento, nella riflessione sul rapporto tra bene e male e su come esso venga vissuto dagli esseri umani, cita l’analisi lucidissima e “scientifica” proposta a suo tempo da Primo Levi nel romanzo “I sommersi e i salvati”, là dove ci si sofferma sulla cosiddetta “zona grigia” che, nell’inferno dell’Olocausto, rendeva spesso confuso, nei comportamenti quotidiani del campo di concentramento, il confine tra vittime e carnefici, tra torturati e torturatori. La “zona grigia” non è tale solo perché le figure dei persecutori e delle vittime si confondono, ma anche perché questa sovrapposizione rende difficile la formulazione di un giudizio su chiunque sia stato risucchiato al suo interno. Di fronte all’Olocausto occorre mettere tra parentesi il giudizio. “Sospendere il giudizio sui prigionieri–funzionari significa … ricordare che quegli uomini avevano il diritto ad una vita normale, l’unica che gli avrebbe permesso di essere innocenti o colpevoli, esemplari umani ottimi o pessimi, in quanto esseri liberi. Essi sono da sottrarre al giudizio perché sono stati sottratti alla loro libertà”.
Il male corrompe e confonde, cerca di inquinare le prove. Dichiarare la propria incapacità di dare un giudizio non vuol dire abdicare al giudizio stesso, ma al contrario evitare questa confusione. I deportati avevano il diritto di “vivere la propria debolezza in condizioni normali, mentre il male non solo l’ha dilatata con il terrore, ma l’ha anche resa strumento dei suoi progetti e dei suoi incubi”. “L’abiezione massima del nazionalsocialismo sta proprio nell’aver ucciso l’anima delle vittime facendole diventare carnefici a loro volta”. Non a caso, sostiene l’autore, ad uscire salvi dal lager sono stati spessi, paradossalmente, i reietti, le anime peggiori. Quelle che, con il male, scendono a patti, perché il ribelle, che è turbamento dell’ordine malefico ed insieme concretizzazione di un bene possibile, è eliminato fisicamente, tramutandosi da esempio in ammonimento. La chiave del testo è quindi questa: una continua ricerca della soluzione giusta per combattere con efficacia la brutalità del male, senza finirne tentati o, peggio, schiacciati. Come Hanna Arendt, nel suo “la banalità del male”, Cassano riconosce che l’uomo medio si esonera dal proprio senso di colpa perdendosi nella massa indistinta, cosicché in un regime totalitario può giustificare se stesso nell’individuazione del tiranno quale capro espiatorio, come Male Assoluto, vero e unico colpevole di ogni nefandezza.
Ma è proprio la Arendt che fa un’acuta analisi delle interrelazioni fra la facoltà di pensare, la capacità di distinguere tra giusto e sbagliato, la facoltà di giudizio, e le loro implicazioni morali. La filosofa ebrea si è, infatti, chiesta se la facoltà di pensare, nella sua natura e nei suoi caratteri intrinseci, pone la possibilità dell’alternativa di evitare di “fare il male”. In questi casi fare il male non sembra racchiudere gli standard classici del concetto di “male”, inteso come patologia, interesse personale, condanna ideologica di chi lo fa. E’ quindi fondamentale porsi la domanda se il fenomeno del male abbia necessariamente una radice nel desiderio di farlo. La Arendt afferma, assistendo al processo Eichmann, che si è sentita scioccata “perché tutto questo contraddice le nostre teorie di male”, “…il male non è mai radicale, ma soltanto estremo, e che non possegga né la profondità né una dimensione demoniaca. Esso può invadere e devastare tutto il mondo perché cresce in superficie come un fungo. Esso sfida il pensiero, perché il pensiero cerca di raggiungere la profondità, andare alle radici e nel momento in cui cerca il male, è frustrato perché non trova nulla. Questa è la sua banalità… solo il bene ha profondità è può essere integrale” (citazione da una lettera a Gershom Scholem). Otto Adolf Eichmann, infatti, faceva semplicemente il “proprio dovere”, rispettava le leggi, le direttive dei superiori nel modo più efficiente possibile. Egli entrò in un campo di concentramento solo una volta e si sentì male per aver assistito alla fucilazione di un internato. Non vide mai di persona le torture e le atrocità perpetrate dai nazisti e, probabilmente, mai usò un minimo di violenza verso nessuno. “Il guaio del caso Eichmann era che uomini come lui ce n’erano tanti e che questi tanti non erano né perversi né sadici, bensì erano, e sono tuttora, terribilmente normali.”
Ma allora cos’è veramente il male?
(continua) capitolo I
Giuseppe Motta
- in anteprima l’introduzione del saggio dal titolo “Breve discorso sul male” che sarà pubblicato a breve