La rilevanza dei Bias cognitivi nell’attività giudiziaria

di Giuseppe Motta
Possiamo essere ciechi di fronte all’evidenza e ciechi di fronte alla nostra cecità.”
(Daniel Kahneman, pensieri lenti e veloci)

 

Il processo, da un punto di vista sociale e giuridico, è una metafora della Giustizia. Nel processo, infatti, si presume che la Giustizia sia realizzata tramite una serie di procedure regolate da norme giuridiche ad hoc. Se tali procedure sono applicate correttamente si avranno risultati giusti, cioè corretti e controllabili; ciò in quanto la correttezza della procedura è una delle condizioni essenziali perché ci sia giustizia nella decisione del giudice. Ovviamente il cd. “giusto processo” non può essere assunto come la condizione unica perché sia fatta Giustizia. Devono, infatti, essere soddisfatte altre condizioni che sono necessarie e complementari al “giusto processo”. Mi riferisco, in particolare alla corretta scelta ed interpretazione delle norme applicabili al caso in esame, che deve conseguire all’accertamento, quanto più attendibile possibile, dei fatti.

In altri termini, la decisione giudiziale, cui il processo è teleologicamente orientato, riguarda sia la quaestio facti che la quaestio juris, dove la prima precede cronologicamente la seconda.

Emblematico è, a questo proposito, il processo penale, dove la soluzione della quaestio facti è raggiungibile attraverso una ricostruzione del fatto di reato e dell’elemento soggettivo, mediante un’argomentazione sorretta da deduzioni, induzioni e abduzioni, che tentano di ricostruire un evento storico di per sé contingente e non ripetibile. L’attestazione della verità dei fatti su cui si controverte non è, però, il fine ultimo del processo ma è solo un presupposto per poter adeguatamente decidere quale sia la norma applicabile al caso concreto.

Il processo, dunque, prende le mosse da una condizione di incertezza e mira ad una riduzione della complessità al fine di consentire al giudice l’applicazione delle disposizioni normative che siano più adeguate a quella verità processuale che viene fuori dalla ricostruzione dei fatti “ricreata” nel processo stesso. La procedura che porta alla decisione è, però, espressione di una “razionalità situata”, cioè legata alle condizioni sociali e culturali del giudice stesso; ed ha a che fare con percezioni di problemi, raccolta ed elaborazione di informazioni, previsioni e valutazioni delle conseguenze che riguardano la particolarità della situazione e rimandano ad una scelta elaborata in stato di relativa incertezza. Attraverso questa “scelta” il fatto storico acquista un senso giuridico e i passaggi del ragionamento seguito per giungere a questa “scelta” devono essere evidenziati in sentenza.

Per giungere alla sentenza il giudice deve in primo luogo “interpretare” la ricostruzione processuale dei fatti e successivamente “interpretare” le norme giuridiche che qualificano la “verità processuale”. L’interpretazione ha sempre un aspetto ideologico che incide nel percorso mentale del giudice, in relazione alla successione causale degli eventi ed agli aspetti psicologici ricostruiti nel processo. Gli aspetti ideologici dell’interpretazione possono essere esaminati, oltre che giuridicamente, anche da un punto di vista politico, sociologico e psicologico, evidenziando in che modo in un determinato contesto culturale, in un determinato ordinamento giuridico o nei processi psichici individuali del giudice, l’ideologia influisca sulle decisioni giurisdizionali.

L’indagine sugli aspetti ideologici dell’interpretazione e dell’applicazione del diritto deve avere presente la distinzione tra il problema della “ideologia dell’interpretazione” e quello della “ideologia nell’interpretazione”. Nella prima si evidenzia l’aspetto strumentale che si risolve nelle regole di ermeneutica, nella seconda, invece, prevale l’aspetto finalistico, che mira a trasformare le teorie generali dell’ermeneutica, di per sé indifferenti ai fini sociopolitici per cui sono stati elaborati, in modelli adattabili al contesto sociale in cui vengono applicati. In quest’ottica è quindi necessario distinguere, senza separarle, l’ideologia dell’interpretazione dall’ideologia nell’interpretazione, per cogliere meglio la tensione dialettica che si instaura tra diritto e politica e come essa influisca sull’atteggiamento dei giudici[1].

Gli studi teorici e la prassi applicativa del diritto si trovano sempre più frequentemente in difficoltà nell’adeguare in modo convincente il caso concreto alla volontà del Legislatore e nel dimostrare che quest’ultima sia coerente con l’applicazione della norma generale ed astratta. Gli operatori del diritto, attenendosi strettamente ai limiti del proprio ruolo, si trovano costretti a sanare le lacune legislative attraverso una costante revisione di fatto dei metodi d’interpretazione del diritto. In tal modo si passa da un’interpretazione meccanicistica della legge ad un’interpretazione, meno strettamente esegetica, che non può non tenere conto anche delle esigenze storico-sociali, del mutamento del costume, delle istanze del caso concreto e così via. Si opera inconsapevolmente un rinnovamento della “ideologia dell’interpretazione”, che lascia ampio spazio a distorsioni cognitive dettate dalla psicologia del giudice e dal suo “appartenere ad uno contesto socio-politico”. Tale rischio è, però ancora più grave quando gli strumenti a disposizione del giudice sono inadeguati e non riescono più a tamponare le carenze del potere legislativo, quando questo è inerte o, peggio, quando manca di qualità tecnica. In questi casi quella che abbiamo definito “ideologia dell’interpretazione” non riesce più a compensare le lacune del diritto e l’attenzione passa “all’ideologia nell’interpretazione” ed il problema, che nasce giuridico, diventa esclusivamente politico, sociale e psicologico.

Alla luce delle considerazioni evidenziate in precedenza, si può, dunque, affermare che la scelta del giudice, che si realizza nella sentenza, è incerta per definizione.

Ma le difficoltà, nella ricostruzione della quaestio facti e nella definizione della quaestio iuris, trova un ulteriore scoglio nella trappola dei Bias cognitivi in cui può (spesso inconsapevolmente) incorrere il giudice; la mente umana, infatti, tende a distorcere la realtà a favore delle proprie esigenze, politiche, sociali e psichiche, attraverso: scorrette generalizzazioni, condizionamenti scaturenti dalle proprie inclinazioni e la tendenza a cadere nelle trappole delle espressioni linguistiche[2]. La naturale incertezza della verità processuale è rappresentata dall’impossibilità di giungere alla certezza, per gli imperfetti strumenti gnoseologici dell’uomo; e cioè quegli schemi cognitivi che si attivano quando chi decide non è in possesso della totalità delle informazioni sul caso in esame.

I principali modelli decisionali utilizzati dal giudice possono essere ricondotti alla suddivisione tra modelli matematici e modelli cognitivi[3]. Mentre i primi si basano su un approccio scientifico-probabilistico i secondi si fondano sulle modalità in cui la mente umana tende ad incasellare i fatti, riempiendo i vuoti narrativi che li caratterizzano, e sono più soggetti “all’ideologia nell’interpretazione” e, di conseguenza, quelli su cui maggiormente incidono le distorsioni cognitive. E’ stato, infatti, evidenziato dall’analisi di un campione di sentenze di giudici americani (ma il principio è astrattamente valido per ogni sentenza) che gli standard probatori che le sorreggono vengono, di norma, inseriti nello schema cognitivo del giudice mediante una ricostruzione in forma narrativa di ciò che è emerso nel processo e attraverso un procedimento di composizione e scomposizione, che è indipendente dalla scansione cronologica in cui si sono svolti i fatti, si sono verificati gli eventi, sono state assunte le informazioni e sono state ascoltate le testimonianze. In altri termini si fa una narrazione, uno storytelling, che si avvicina il più possibile, ad avviso del giudice, alla Verità[4]. Pertanto, la costruzione dell’impianto narrativo della decisione si sviluppa sia su basi probabilistiche che, soprattutto, sulle euristiche da cui è condizionato il giudicante. Queste ultime sono meccanismi di pensiero automatici che aiutano il veloce raggiungimento di una soluzione nel momento in cui occorre prendere una decisione in uno specifico contesto; le euristiche sono, dunque, escamotage mentali che portano a conclusioni veloci con il minimo sforzo cognitivo[5]. “Le euristiche, che funzionano correttamente in molti ambiti della vita umana, possono però produrre distorsioni del giudizio in altri ambiti e cioè dei Bias cognitivi, che rappresentano il rovescio della medaglia delle euristiche, nel senso che rendono l’essere umano vittima di ragionamenti automatici incongrui anche se favoriscono la rapidità delle decisioni[6]. Quello che è fondamentale chiarire è che tali distorsioni sono poco influenzate dal livello culturale e intellettivo di chi ne è vittima in quanto operano automaticamente.

Le modalità di riflessione cognitiva possono avere origine in due sistemi: un “Sistema lento” che Daniel Kahneman chiama “Sistema 1” e un “Sistema veloce”, detto “Sistema 2”. Il primo opera velocemente ed automaticamente, con poco o nessuno sforzo intellettivo e nessun senso di controllo volontario, il secondo, invece, impegna l’attenzione focalizzandone lo sforzo sul problema da risolvere[7]. La dominanza istintiva del “Sistema 1” crea, appunto, delle distorsioni cognitive, dei Bias, che possono incidere al momento della formulazione del giudizio, specialmente in relazione alla ricostruzione della quaestio facti nel processo e, in particolare, nella valutazione di testimonianze o consulenze tecniche.

Le argomentazioni su cui si basa la ricostruzione logica nella sentenza si fondano sempre su un numero limitato di princìpi euristici finalizzati a ridurre la complessità della decisione.

Seguendo la tassonomia di Ceschi e Sartori[8], analizziamo alcune tipologie di Bias cognitivi e come questi possono incidere sui ragionamenti che costituiscono l’impalcatura logica della decisione del giudice o dell’istruttoria che conduce alla sentenza.

I Bias di ancoraggio si possono definire come quelle distorsioni cognitive in base alle quali nel prendere una decisione si tende a confrontare solo un insieme limitato di elementi, “ancorandosi” su un singolo valore che viene poi usato come termine di paragone per le decisioni da prendere. Spesso, infatti, specie nelle indagini penali e nei conseguenti processi, si ha la tendenza ad “ancorarsi” alla prima “pista” seguita, perché magari nell’immediatezza del fatto ritenuta la più valida; ciò può comportare una minore attenzione ad indizi che suggeriscano “piste” diverse o, quanto meno, sollecita una tendenza a tornare sempre all’ancoraggio iniziale da cui psicologicamente e del tutto inconsapevolmente è difficile distaccarsi. L’ancoraggio è infatti fornito automaticamente dal “Sistema 1” e riduce notevolmente la complessità della realtà. Il Bias che si basa sull’euristica dell’ancoraggio è d’altra parte quello utilizzato nel marketing in Rete, quando qualsiasi ricerca su un bene da acquistare tende ad “ancorare” la nostra mente al primo risultato della ricerca stessa, tanto che frequentemente alla fine si acquista la prima cosa vista (su Google, ad esempio, i primi risultati sono sempre sponsorizzati, cioè a pagamento, proprio per questa ragione).

In America alcuni ricercatori hanno condotto un’indagine per verificare l’ipotesi dell’influenza dell’ancoraggio nelle decisioni dei giudici in relazione ad un risarcimento del danno in un ipotetico processo per lesioni personali; in un incidente automobilistico un pedone, investito da un’automobilista che non aveva curato la manutenzione dell’automobile, era rimasto parecchi mesi in ospedale e paralizzato a vita. I giudici dovevano semplicemente valutare il danno subito. Per un primo gruppo di giudici non vi era alcuna cifra di riferimento, per gli altri veniva aggiunta l’informazione che il pubblico ministero aveva chiesto l’archiviazione perché il danno non raggiungeva il valore minimo di 75.000 dollari. I giudici del primo gruppo, ai quali non era stata offerta un’àncora, fissarono un risarcimento (medio) di 1.249.000 dollari, viceversa i giudici del secondo gruppo hanno indicato in media una cifra più bassa, 882 mila dollari. La presenza dell’àncora, ossia la richiesta di archiviazione, per una cifra molto bassa anche se chiaramente pretestuosa, ha quindi indotto i giudici a ridurre l’ammontare del risarcimento[9].

I Bias di Framing, invece, sono caratterizzati dall’influenza del contesto nei processi decisionali; la presenza di uno schema interpretativo strutturato nella mente toglie obiettività condizionandone le decisioni. Il più noto e, sicuramente, il più diffuso è il Bias di conferma, ovvero la tendenza a cercare conferme alle proprie convinzioni o ai propri pregiudizi e a rifiutare evidenze che le contraddicono. Orbene è innegabile che il giudice formi la sua decisione sulla base degli impulsi che provengono dal processo ma anche da altri, propri della sua formazione culturale ed emotiva. Tra questi vi sono indubbiamente anche i pregiudizi e gli stereotipi. Il pregiudizio rappresenta un giudizio anticipato rispetto alla valutazione dei fatti e presenta, di norma, caratteri di superficialità, indebita generalizzazione e rigidità, implicando il rifiuto di mettere in dubbio la fondatezza dell’atteggiamento stesso e la persistenza a verificarne la consistenza e la coerenza. Lo stereotipo, invece, nasce da un’idea preconcetta, prevenuta e generalizzata, spesso basata su background culturali, etnicità, orientamento sessuale e religioso, disabilità, età e nazionalità, che spinge ad etichettare un gruppo o un individuo positivamente o negativamente. Entrambi i concetti sono strettamente collegati perché da uno stereotipo spesso nasce un pregiudizio. I giudici, ovviamente, come tutti gli uomini, possono essere vittima di stereotipi o pregiudizi che trovano quasi sempre una “conferma” attraverso il meccanismo euristico del Bias di conferma. In altri termini ed esemplificando: se un giudice è ideologicamente convinto che l’immigrazione sia un rischio per la società, perché tende ad “importare”, per lo più, criminali, troverà conferma del proprio pregiudizio quando, durante un processo penale si troverà a giudicare un extracomunitario, con la conseguente tendenza (assolutamente inconsapevole) a dare più credito alle prove a carico, che confermano il pregiudizio, che non a quelle a discarico che invece gli creerebbero una dissonanza cognitiva. Allo stesso modo un giudice che ritenga l’immigrazione una fuga dalla miseria e dalle guerre e che provi solidarietà per gli immigrati, nel processo tenderà a dare maggior peso a quei fatti che dimostrano che il comportamento è necessitato o, quanto meno, giustificato dalle condizioni economiche e psichiche estremamente degradate dell’imputato, incidendo sull’elemento soggettivo o addirittura sull’imputabilità dello stesso.

Tra i Bias di Framing, vi è anche “l’effetto del senno del poi” (hindsight bias) che può influire sulle decisioni del giudice. Si tratta di una distorsione retrospettiva del giudizio per cui il solo fatto di sapere, a posteriori, com’è andata finire, induce a ritenere sistematicamente più probabile quell’esito anche alla luce dei fatti che erano disponibili fin dal principio; cioè dopo che un determinato evento si è verificato questo appare più probabile di quanto prima si poteva pensare che fosse. Valutazioni di questo tipo, nelle quali si pone il problema di valutare oggi quanto fosse prevedibile, allora, la verificazione di un certo evento, sono chiaramente fondamentali per il diritto, di conseguenza la visione retrospettiva di una qualsiasi condotta avente rilevanza giuridica ha la tendenza a ritenere più probabile la verificazione e la prevedibilità dell’evento che si è verificato di quanto non lo fosse in realtà al momento in cui è stata posta in essere la condotta, e ciò può influire negativamente sulla decisione finale.

Nei Bias della rappresentatività vi è una violazione delle regole probabilistiche a favore delle opzioni più rappresentative e più mentalmente disponibili e sono una sorta di scorciatoia del pensiero che permette di paragonare le informazioni a disposizione con degli stereotipi mentali che influenzano la scelta finale. Anche in questo caso è stato condotto un esperimento negli USA tra alcuni giudici che ha portato gli autori ad affermare che: “nel compiere valutazioni categoriali, (ad esempio, la circostanza che l’imputato sia effettivamente l’autore del reato), le persone tendono a basare i propri giudizi sulla misura in cui gli elementi a disposizione (ad esempio, l’atteggiamento dell’imputato) sono rappresentativi della categoria[10]. In questo caso, quando gli elementi sembrano ricondurre alla categoria (ad esempio, il sospettato, al momento del fermo, ha un atteggiamento nervoso ed evasivo), si tende a ritenere elevata la probabilità che il soggetto sia colpevole; viceversa, quando gli elementi a disposizione non corrispondono alla categoria (ad esempio, il fermato appare sicuro di sé ed a suo agio) si tende a ritenere meno probabile che sia colpevole. La dimostrazione dell’incidenza di tali errori è piuttosto complessa perché coinvolge la matematica e la statistica e si fonda sul fatto che la maggior parte dei giudici ignorano le statistiche sulle “frequenze di base”, che, quindi, restano fuori dalla decisione pur incidendo moltissimo sui dati che dovrebbero influenzare la scelta valutativa del giudice[11].

Tra i Bias della rappresentatività, gioca un ruolo di grande importanza in sede giudiziale il cd. Bias egocentrico; la tendenza a interpretare tutto ciò che ci accade intorno in modo personale, in base all’intensità con cui l’evento ci influenza. Per comprendere come funziona e come può influenzare la ricerca della giustizia nel processo, è stato fatto uno studio molto rappresentativo da alcuni neuroscienziati che dimostrarono che l’attivazione del talamo[12] può predire quanto sarà intenso il nostro Bias egocentrico. Il talamo, semplificando, svolge un ruolo chiave nel dirigere l’attenzione verso gli stimoli che vengono considerati rilevanti. Questo significa che, quando si è vittime di tale distorsione, si tende a prediligere le informazioni e gli stimoli che si ritengono collegati a noi e ci influenzano in qualche modo. Questa visione egocentrica può, però, ingannare, facendo trascurare informazioni che potrebbero essere rilevanti, perché il talamo le catalogherebbe come irrilevanti o secondarie. Una delle conseguenze di tale distorsione cognitiva è la tendenza delle persone a sovrastimare le proprie abilità e capacità.

La più volte citata indagine svolta sui giudici americani ha dimostrato che l’87% di loro pensava che la possibilità che le decisioni fossero annullate in appello, erano molto più alte per le sentenze dei colleghi che non per le proprie.

Una volta analizzati i più frequenti Bias cognitivi che influenzano le decisioni giudiziali, si può dire che non possono esservi soluzioni al problema che non passino dall’umiltà del giudice e dalla sua capacità di una visione trasversale, che lo porti sempre a guardare se stesso dal di fuori, consapevole della delicatezza e della difficoltà della sua funzione. Pertanto, occorre evidenziare che studiare le “debolezze” dei giudici – che sono poi quelle di tutti noi – non è un modo per sminuirli, né dovrebbe minare la fede nel sistema della giustizia. Piuttosto, ha lo scopo di identificare le condizioni in cui i giudici sono vulnerabili per favorirne il superamento al fine di raggiungere un sistema giuridico che sia sempre più equo ed imparziale.

 

[1] Cfr. AA.VV., Interpretazione e applicazione del diritto tra scienza e politica, ed. CELUP srl, Palermo, 1974, pag. 167 e segg.

[2] Cfr. G. Motta, Bias cognitivi: ovvero come i pregiudizi influiscono sul ragionamento, su www.giuseppemotta.it.

[3] Cfr. F. Giusberti, L. Bensi, R. Nori, Oltre ogni ragionevole dubbio. Decidere in Tribunale, Raffaello Cortina, Milano, 2013, pp. 33–55

[4] Cfr. N. Pennington, R. Hastie, A Cognitive Theory of Jurors Decision Making, in Card. L. Rev., 13, 1991, pp. 519-557 (citato da Maurizio Sozio in: La decisione giudiziale in condizioni di incertezza: tra distorsioni cognitive e neuroscienze, su Quaderni del dipartimento ionico n. 11/2019 .

[5] D. Kahneman, Pensieri lenti e veloci, Mondadori, Milano, 2013.

[6] G. Motta, cit. www.giuseppemotta.it.

[7] D. Kahneman, cit.

[8] Le tipologie analizzate sono riprese dal testo: A. Ceschi – R. Sartori, un approccio empirico per una tassonomia dei Bias cognitivi, 2012 pubblicato nel sito dell’Università di Verona: https://iris.univr.it/retrieve/handle/11562/470757/5815/Ceschi_Sartori_Rubaltelli_2012.pdf.

[9] L’indagine è di C. Guthrie, J.J. Rachlinsky, A.J. Wistricliff, Inside the Judicial Mind, in Cornell Law Faculty Publications, Vol. 86, 2001 e riportata da S. Arcieri, Bias cognitivi e decisione del giudice: un’indagine sperimentale, Diritto penale e Uomo, fasc. 4/2019.

[10] C. Guthrie, J.J. Rachlinsky, A.J. Wistricliff, cit., pag. 805.

[11] Nella loro indagine Guthrie, Rachlinsky e Wistricliff (vedi nota 9) hanno dimostrato statisticamente come in alcuni casi giudiziari tale mancata conoscenza abbia influito sulla decisione errata del giudice.

[12] Il talamo è una struttura del sistema nervoso centrale che partecipa al funzionamento di tutti i sistemi sensoriali – escluso il sistema olfattivo – e gioca un ruolo chiav,e tra gli altri, nel controllo dell’eccitazione e dell’emozione e in alcuni aspetti della capacità di memoria.

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