Mia figlia, come tutte le adolescenti di oggi, “distrugge” uno smartphone l’anno. All’inizio del 2013 ne ha ricevuto in regalo uno di una nota marca che, ovviamente, al compimento dell’anno si è guastato. Armato di copia dello scontrino, mi reco presso il centro assistenza, dove una gentile addetta mi spiega che non può accettare “la merce” perché lo scontrino non è fotocopiato fronte/retro; un po’ perplesso le chiarisco che nel retro vi era solo un codice che si riferiva alla carta fedeltà e un memo sui punti accumulati, di conseguenza non riuscivo a capirne l’essenzialità ai fini della garanzia. L’addetta mi ripete, perentoria, che senza il retro dello scontrino non può accettare la riparazione in garanzia. Le prometto che al ritiro le avrei sicuramente portato quanto richiesto e mi sono impegnato a pagare la riparazione di tasca mia se non lo avessi fatto. Al suo ulteriore diniego le dico che avrei potuto fare un fax del documento appena rientrato a casa. Nulla da fare, è stata irremovibile. Con pazienza ritorno l’indomani munito dell’indispensabile retro dello scontrino. Mi riceve un’altra ragazza che guarda entrambe le fotocopie, trattiene la parte anteriore (per intendersi, quella che avevo già esibito il giorno prima) e mi restituisce l’altra perché inutile, ritira il cellulare e mi invita a ritelefonare dopo due settimane.
Alla fine del 2013 decido di cambiare operatore telefonico perché da più di un anno tentavo di farmi aumentare gli indirizzi IP, per collegarmi alla Rete con più dispositivi, invece dei tre che erano previsti dal contratto. Ogni “tecnico” del call center, infatti, mi prospettava problemi irrisolvibili o soluzioni di dubbia legalità (rompa il modem e glielo sostituiamo con uno con più IP). Faccio il contratto con il nuovo operatore che, dopo circa un mese, mi comunica che il vecchio non vuole concedere la migrazione del numero che per me era indispensabile. Per sollecitare provo a chiamare il numero indicato ma mi trovo davanti ad un muro di gomma da parte di addetti al call center che, dopo interminabili attese ed innumerevoli tentativi di contatto, non sapevano spiegarmi il motivo del ritardo perché per loro “non c’era alcun problema”. Finalmente dopo due mesi riesco ad ottenere la migrazione ma solo dopo aver ricevuto una telefonata dall’ufficio amministrazione del gestore che lasciavo che mi offriva 128 numeri IP ed uno sconto sul prezzo se fossi rimasto con loro. Naturalmente, per una questione di principio, ho deciso di cambiare ugualmente. Ho pensato che fortunatamente mi ero liberato di loro perché il nuovo gestore sembrava molto più affidabile e veloce. Purtroppo, una volta effettuata la voltura, sono cominciati i guai: la linea Internet non funzionava e non riuscivo più a contattare nessuno per gli opportuni interventi. In definitiva ho atteso più di un mese perché si sistemasse il tutto, con i disagi che è facile immaginare e dopo ore ed ore di inutili attese al telefono.
Gli episodi raccontati sono capitati a me ma credo che ognuno possa raccontarne di più gustosi e/o frustranti. Sembra, infatti, che la burocrazia, che siamo abituati a subire nel settore pubblico, abbia contagiato anche il privato.
Spesso si sente dire che occorre privatizzare il pubblico, e, da una ventina d’anni, si assiste ad un processo di innovazione legislativa mirante ad avvicinare la burocratica lentezza della pubblica amministrazione all’efficiente velocità del settore privato. Di conseguenza si è privatizzato il rapporto di pubblico impiego, si sono esternalizzati molti servizi dell’amministrazione pubblica, si sono create strutture ad hoc per la gestione della comunicazione, sono stati attivati numeri verdi e call center per gestire l’utenza in maniera moderna e si procede, ormai con cadenza annuale, all’emanazione di “leggi di semplificazione”. Con il modello aziendale, dunque, si è cercato di attivare un processo di cambiamento, il cui obiettivo principale è quello di garantire la soddisfazione della collettività, valutando l’attività della pubblica amministrazione non più in termini di conformismo procedurale, ma in termini di efficacia ed efficienza; realizzando cioè il passaggio dalla centralità della norma alla centralità del risultato. Tutte queste iniziative dovrebbero rendere più semplice e snella l’erogazione dei servizi pubblici ma, in realtà, la loro efficacia si sta dimostrando piuttosto dubbia.
Per contro si assiste ad un apparente “pubblicizzazione del privato”, per cui il modello paradigmatico della razionalità nelle organizzazioni tende a modificare, associando, alla componente economica e al calcolo dei mezzi, la razionalizzazione formalistica e la burocratizzazione di quella parte dell’organizzazione che è rivolta a trasmettere informazioni al consumatore.
La struttura di questi processi aziendali ha un carattere proteiforme che di volta in volta si adatta a esigenze che sembrano rispondere più a diretti ed immediati ritorni economici del management e degli azionisti, che al reale interesse dell’azienda di costruire un brand serio, affidabile e duraturo. E così, avere a che fare con le procedure di comunicazione e di customer satisfaction delle grandi aziende private, fatte di call center impossibili da contattare dopo che si è diventati “clienti” (prima sono loro che ci contattano continuamente), di numeri “verdi” a pagamento per l’assistenza, di operatori gentili ma assolutamente incapaci o, peggio, non messi nelle condizioni, di risolvere alcun problema, è altrettanto frustrante che combattere giornalmente con la burocrazia del settore pubblico.
L’organizzazione delle grandi aziende, in particolare quelle del settore tecnologico e delle comunicazioni, ricorda il mito del dio greco della metamorfosi Proteo, che era una divinità sfuggente, le cui trasformazioni lo rendevano inafferrabile ai mortali che sollecitavano la sua conoscenza del passato, del presente e del futuro. Il senso della pratica metamorfica nel mito di Proteo, l’identità metamorfica come artificio per sottrarre la conoscenza divina allo sguardo dei mortali, rimanda alla metafora di una conoscenza inafferrabile. Le metamorfosi del dio Proteo evidenziano l’identità più profonda dell’essere che la subisce; un’identità articolata e sofferta che si rende invisibile ed evanescente. Fuor di metafora, tra apertura di reclami, attese telefoniche fino a che si liberi l’operatore, colpe per “l’errore dell’operatore precedente”, rimpallo di responsabilità tra reparto tecnico, amministrativo o commerciale, procedure complesse per poter utilizzare la garanzia; tutto richiama questa continua mitologica metamorfosi che rende quasi preferibile la vecchia cara burocrazia amministrativa che almeno consente di avere riferimenti più o meno certi.
Weber nel fare una diagnosi dei suoi tempi ha utilizzato la metafora della “gabbia d’acciaio”. Con questa immagine intendeva esprimere l’idea che l’uomo moderno è soggetto ad una serie di costrizioni tipiche del suo tempo, e non può sottrarsi al tipo di vita che gli viene imposta dalle due grandi novità prodotte dalla società moderna: l’economia capitalistica e la burocrazia. La vita dell’uomo è ormai assoggettata a delle condotte che la sfera economica e quella amministrativa lo obbligano ad osservare; l’autore parla di una sorta di prigione mentale.
Anche Adorno aveva ripreso questo motivo weberiano, quando definì la realtà sociale dei nostri giorni come un “mondo totalmente amministrato“. A ben vedere questa lettura della società è per certi versi attuale se confrontata con le dinamiche sociali ed aziendali contemporanee. L’uomo è, infatti, “imprigionato” in quella “gabbia d’acciaio” che lo costringe, da un lato, a consumare sempre di più (l’economia capitalistica) e, dall’altro, ad assoggettarsi a quella terribile forma di burocrazia che, come si è visto, scaturisce dalle procedure dettate dall’esigenza di costringere il consumatore a desiderare sempre beni e servizi nuovi per mantenere un livello degli scambi sempre più elevato (la burocrazia).
Dice Baumann che “… la vita fatta di consumi, non si riduce all’acquisto e al possesso di qualche cosa. [..] Ciò che la contraddistingue semmai, è l’essere in continuo movimento“. Il consumatore, in questo contesto, si autoimprigiona in questa “gabbia d’acciaio”, in questo circolo vizioso che lo porta a subire passivamente la “burocrazia del monopolio” che decide per lui tempi e modi del consumo. Tale burocrazia nasce dalla posizione di monopolio della pubblica amministrazione e trova realizzazione nella finta concorrenza del mercato globale dell’era post moderna. L’attenzione ai mezzi piuttosto che ai fini, la spersonificazione dei soggetti del rapporto e l’estrema rigidità normativa delle procedure sono, infatti, i caratteri tipici della burocrazia ma sono anche l’evidente conseguenza di aziende che agiscono in uno stato di monopolio di diritto o solo di fatto. Così è per l’apparato amministrativo pubblico che trova nel monopolio del potere la giustificazione di se stesso, ma lo stesso può dirsi, anche se con dinamiche diverse, anche per le conseguenze della globalizzazione sui rapporti tra l’azienda, i suoi stakeholder ed i clienti finali, i consumatori. Il crollo della piccola e media impresa e l’avvento di pochi ma enormi giganti economici globali hanno, di fatto, interrotto il ciclo economico naturale, in base al quale il rapporto tra domanda ed offerta e la capacità di fidelizzazione dell’impresa, mediante la relazione diretta con il cliente, era la caratteristica principale del mercato. Oggi tale ciclo è impedito da quella che lo stesso Bauman chiama globalizzazione negativa, in base alla quale l’andamento ciclico del mercato è stato soppiantato da una concezione sempre più lontana da quello spirito capitalistico originario che animava gli imprenditori, produttori di beni e servizi, e i lavoratori, in continuo e, spesso proficuo, conflitto sociale.
Oggi non si fa più impresa, si fa finanza. E con questa terribile consapevolezza dobbiamo accettare che l’economia non “gira” più in funzione “della produzione e dello scambio di beni e servizi” ma, molto più semplicemente, in ossequio al dio denaro che una minoranza deve accumulare a danno della maggioranza. Per più di un millennio il capitale è stato usato per produrre beni industriali o manifatturieri; oggi invece il capitale, inteso come denaro, pretende di autogestirsi e di dettare legge anche alla produzione. Le vere rendite ormai non derivano più dalla produzione ma dalle operazioni finanziarie. La Fiat, ad esempio, pur vendendo meno macchine, continua a far arricchire i propri azionisti grazie alle grandi operazioni finanziarie, con buona pace degli operai in cassa integrazione o licenziati. Le multinazionali dell’Hi tech hanno guadagni enormi grazie ad operazioni a volte antitetiche all’economia classica: la delocalizzazione sempre più spinta, l’induzione artificiosa di bisogni sempre nuovi, la creazione di nuovi mercati in zone economicamente depresse mediante un capovolgimento della piramide dei bisogni di Maslow, un’aggressività finanziaria sempre più spinta attraverso scissioni, fusioni, acquisizioni, vere o solo annunciate, che muovono miliardi; tutti meccanismi sempre più complessi che vedono soccombere i consumatori.
Ma soffermiamoci brevemente su questa categoria che caratterizza la società post moderna per comprendere il motivo per cui la burocratizzazione del mondo della produzione e dello scambio di merci e servizi sia in realtà la logica conseguenza di questo sconvolgimento sociale che abbiamo definito come finanziarizzazione dell’economia.
I tratti essenziali del postmoderno sono il rifiuto di ideologie totalizzanti, il pluralismo, il relativismo culturale, il pensiero debole, l’olismo ed il multiculturalismo, tale epoca indica non solo il superamento della fase precedente, quella appunto della modernità, ma una società sostanzialmente caratterizzata dallo sfaldamento di ogni certezza illusoriamente acquisita nelle epoche precedenti, e dalla consapevolezza della continua provvisorietà della realtà, di cui l’individuo è parte imprescindibile. L’individuo viene, quindi, analizzato con le sue azioni e i suoi comportamenti che optano “per l’ambiguità, la complessità, il disordine, il bicchiere mezzo vuoto, il dubbio sistematico contrapposto alle certezze, alla ricerca di semplificazione e ordine, al bicchiere mezzo pieno, alle grandi ideologie della modernità“. Consumo e postmodernità, dunque, pongono al centro di ogni definizione il comportamento del consumatore, che viene descritto come soggetto in costante evoluzione perché immerso nel cambiamento. L’idea, tipica della modernità, di un consumatore parte del grande flusso della “società liquida” del consumismo e visto come un burattino alienato, vittima di un sistema globalizzato, non è più realistica. La società dell’iperconsumo è caratterizzata dalla centralità del consumatore, che si muove all’interno di un mondo d’iperofferta, dove produrre bisogni anziché merci é una delle modalità per far fronte alla concorrenza, ma rappresenta anche un terreno fertile per sommergere il consumatore con un eccesso d’informazione in grado di stimolare, soddisfare e realizzare bisogni “latenti”, di cui spesso non è neanche consapevole.
Nella società postmoderna i bisogni sono soppiantati dai desideri da cui scaturiscono esperienze; dice Giampaolo Fabris che c’è una “presa di distanza dai bisogni, ma anche il superamento dei desideri, che erano stati individuati come sostituitivi dei bisogni espliciti o latenti [..] il consumatore postmoderno ricerca esperienza piuttosto che beni e servizi” e risulta distante ormai dal concetto di alienazione con cui era stato etichettato nell’era moderna.
Consumare è quindi un obbligo morale, un imperativo categorico cui nessun uomo postmoderno può sfuggire. Una volta avvenuto il sacro atto del “consumo”, una volta che il desiderio si è trasformato in esperienza, l’unica cosa importante è passare ad un nuovo desiderio, ad una nuova esperienza, archiviando quella precedente. Ecco perché il post vendita tanto sbandierato diventa parte di un rito collettivo, la parte finale per precisione, fatto solo di informazione, ma mai di comunicazione; il cliente non ha più alcun significato per l’Azienda se non in funzione del prossimo atto del rito: la nascita di un nuovo desiderio. La burocratizzazione del momento finale ha la funzione di facilitare l’archiviazione di un’esperienza e preparare il cliente alla prossima. Da qui le difficoltà, le lungaggini, le attese, che il più delle volte si concludono con un’ulteriore offerta, che mira a chiudere un capitolo di consumo ed aprirne un altro.
Di conseguenza, riannodando il filo del discorso, è facile comprendere come la catena che unisce il passaggio dall’impresa alla finanza è ininterrotta e passa dalla creazione del desiderio di consumo, che diventa una vera e propria necessità, ad un’iperofferta sul mercato che ha la funzione di creare profitto, per giungere al passaggio finale dove – quando neanche l’iperconsumo soddisfa questa sete insaziabile di ricchezza e potere che caratterizzano il mondo post moderno – il detentore del potere economico e finanziario non ha più bisogno del consumatore, perché è in grado di “sottrargli” il denaro mediante operazioni finanziarie che egli non può nè comprendere né contrastare. Ma il vero dramma è che neppure il potere statale è più in grado di fermarlo o, quanto meno, di limitarne gli effetti dannosi.
In conclusione l’accostamento della burocrazia, intesa in senso classico, a quella descritta, rapportata al “privato”, sembra piuttosto arduo, perché pur essendone le manifestazioni assolutamente simili non altrettanto lo sono gli effetti. La burocrazia “pubblica” tende a rafforzare il potere politico in maniera evidente, costringendo il cittadino ad incomprensibili pastoie cui è, comunque, abituato per educazione a seguito di una “socializzazione strutturalmente funzionalizzata”; in altri termini è frustrante, fastidiosa, oppressiva e limitante, ma è interiorizzata dalla società, in un certo senso, utilizzando un ossimoro, “l’insicurezza dà la sicurezza” che tutto è come è sempre stato. La burocrazia “privata”, invece, mette paura perché alla frustrazione ed al fastidio aggiunge l’ansia per qualcosa che percepiamo ma non siamo in grado di comprendere e, capovolgendo l’ossimoro, ci dà “la certezza dell’insicurezza”, che la prossima esperienza che ci faranno desiderare sia prima o poi l’ultima; dopo non avremo più neanche l’illusione di aver potuto desiderare qualcosa.
Giuseppe Motta
Le citazioni sono estratte dai seguenti testi:
Bauman Z. Consumo dunque sono, Laterza 2008 Roma
Brown – Doherty – Clark, Romancing the Market, Routledge, London, 1991, in Fabris G., Il nuovo consumatore: verso il postmoderno, Franco Angeli, Milano, 2003
Fabris G., Societing, il marketing nella società postmoderna, Egea, Milano, 2008
Weber M., Il lavoro intellettuale come professione. Torino, Einaudi, 1966
* Articolo pubblicato su www.aetnanet.org il 25/03/2014