di Giuseppe Motta
La Pubblica Amministrazione e, in particolare, la burocrazia che la caratterizza, già da alcuni decenni è interessata da un profondo mutamento filosofico, normativo e strutturale. Dal vecchio retaggio culturale della posizione di supremazia gerarchica nei confronti del cittadino-suddito si è, infatti, passati ad una concezione reticolare di riconosciuta parità nel rapporto tra pubblica amministrazione e cittadino utente.
In questo contesto una delle prospettive più interessanti della contemporaneità è quella che vede gli algoritmi di gestione dei dati come una nuova forma di burocrazia.
Burocrazia e algoritmi, apparentemente, fanno riferimento a due ambiti culturali diversi: sociologia e diritto per la prima, informatica e logica matematica per i secondi. In realtà il ruolo degli algoritmi nella società contemporanea ha acquistato una rilevanza che va oltre i problemi squisitamente tecnico-informatici, inserendosi nel dibattito filosofico sulle modalità attraverso cui il formalismo giuridico dovrebbe integrarsi con le regole degli algoritmi di gestione delle informazioni, spesso in aperta apparente contraddizione con la normativa che regola la burocrazia. In quest’ottica, burocrazia e algoritmi hanno sicuramente un elemento in comune, quello di essere entrambi strumenti funzionali al potere.
Il potere burocratico, però, dipende sempre da una legittimazione che scaturisce da una norma scritta o consuetudinaria che, come tale, può essere messa in discussione ed eventualmente superata con le medesime forme giuridiche con cui era stata creata. La legittimazione dell’algoritmo invece “avviene su una base fideistica e ritualistica irrazionale, che non mette mai in discussione i meccanismi del suo funzionamento, assumendo che sia la stessa forma dell’algoritmo ad assumere i caratteri della sostanza della legittimazione”(1).
Per comprendere appieno la portata sociologica e giuridica del rapporto tra burocrazia e algoritmi, occorre premettere il significato di questi concetti attraverso la storia del pensiero che li ha plasmati e caratterizzati nel loro significato attuale.
Per ciò che riguarda la burocrazia non si può che iniziare da Max Weber. Il sociologo sosteneva che la razionalizzazione della società costituisce l’aspetto qualificante della modernità, che mira a sostituire ai rapporti sociali ed alla gestione del potere tradizionali, delle procedure sistematiche, precise e calcolate razionalmente, con lo scopo di definire regole impersonali ed imparziali. La burocrazia rappresenterebbe, in quest’ottica, una forma particolarmente pervasiva di tale processo di razionalizzazione, “lo specifico apparato amministrativo tipico del potere razionale-legale che esige un sistema di regole generali in grado di vincolare in egual modo i detentori del potere politico, i burocrati e gli utenti della burocrazia”(2).
L’analisi funzionalista della struttura burocratica di Robert K. Merton ha messo in risalto come l’eccessivo conformarsi alle regole possa essere disfunzionale sia nei confronti della realizzazione degli scopi dell’Amministrazione che per le persone a cui la burocrazia dovrebbe fornire un servizio. Il burocrate rappresenta la massima espressione di adattamento ritualistico che idolatra il “mezzo” senza guardare al “risultato”. Il funzionario applica sempre la medesima procedura come se la realtà da affrontare rimanga indefinitamente la stessa. Ma quando la realtà muta creando “problemi nuovi”, tutto l’apparato di tecniche, consuetudini e riferimenti a procedure precedenti viene messo in crisi (3). L’azione burocratica è rigida, incapace di adattarsi a qualsivoglia mutamento sociale che non sia recepito in leggi o regolamenti.
Più recente ed aderente al mondo contemporaneo è la teoria di Michel Crozier per cui il potere burocratico non è un corollario, come sosteneva Weber, della possibilità legittimata di ottenere obbedienza ad uno specifico comando, piuttosto è caratterizzato dalla capacità di un soggetto di fare propri e riuscire a difendere dei margini, sia pure minimi, di libertà di scelta. “L’esercizio di un potere ha dunque sempre un carattere personale e va tenuto distinto dall’autorità in senso formale, disciplinata dai regolamenti”(4).
Sul piano dell’evoluzione normativa, invece, l’apparato burocratico italiano è stato “importato” da quello piemontese, in particolare è nato in Piemonte con la legge Cavour del 1853 che fu estesa al Regno d’Italia. I principi su cui si fondava erano: la responsabilità ministeriale e l’uniformità amministrativa. Si trattava infatti di un modello gerarchico-piramidale di derivazione napoleonica, mentre l’organizzazione del lavoro era caratterizzata dalla frammentazione e dalla parcellizzazione delle funzioni amministrative.
Nel primo ventennio dopo l’unità, il sistema amministrativo era caratterizzato da dimensioni e funzioni contenute, tipiche dello Stato liberale, da una seppur limitata mobilità interna con un accentuato scambio di esperienze professionali, da regole interne non codificate che lasciavano un ampio spazio alla discrezionalità dei capi degli uffici e da una spiccata confusione tra politica e amministrazione.
Successivamente furono create all’interno dell’apparato burocratico tre categorie in base alla funzione (carriere di concetto, di ordine e esecutive) assieme ad una burocrazia tecnica nell’ambito dell’aumento delle funzioni dello Stato. A ciò contribuì la creazione della IV sezione del Consiglio di stato e l’introduzione della giurisdizione amministrativa, che rappresentò un volano per accrescere enormemente i compiti del potere esecutivo.
Ma il vero “decollo” della funzione amministrativa e dell’apparato burocratico si ebbe con i governi Giolitti, fondatore della cd. “administrative revolution”, con la legislazione per il mezzogiorno e l’assunzione da parte dello Stato dei grandi servizi pubblici, in precedenza gestiti in regime di concessione ai privati. La principale conseguenza di tale “burocratizzazione” delle funzioni statali fu l’acquisizione da parte della burocrazia statale della consapevolezza di esercitare un enorme potere che partecipò in via diretta allo sviluppo economico-sociale del paese.
Durante il ventennio fascista ci fu un tentativo di snellire la burocrazia a vantaggio del potere politico a cui si tentò di sottometterla con risultati altalenanti.
Negli anni 50 il “Ministro per la funzione pubblica” Roberto Lucifredi si adoperò per instaurare una sorta di Taylorismo amministrativo, trapiantando nell’amministrazione pubblica tecniche organizzative e metodi di lavoro della moderna scienza dell’organizzazione di matrice anglosassone, cogliendo per primo il nesso tra l’efficienza del settore pubblico e quella del settore privato, quali realtà confluenti nella sintesi del cd. “sistema paese”.
Ma il primo programma generale di riforme amministrative della storia repubblicana è stato progettato, tra il 1993 e il 1994 dal Ministro della funzione pubblica Sabino Cassese, con la legge di privatizzazione del pubblico impiego (29/93), degno coronamento del ciclo iniziato con le due grandi leggi amministrative del 1990 (la 142 sull’ordinamento delle autonomie locali e la 241 sul procedimento amministrativo), che rappresentano un cambio di paradigma nella concezione dell’apparato burocratico e del potere che lo contraddistingue. Il tentativo, riuscito solo in parte, fu quello di avvicinare la burocrazia al cittadino mediante la procedimentalizzazione partecipata dell’attività amministrativa, che da quel momento rappresentò il fine verso cui tendere fino ai giorni nostri (5).
Tutte le teorie sulla burocrazia e la sua evoluzione normativa, che ritengo rappresentative delle correnti di pensiero e dell’epoca storica in cui vennero formulate, non potevano tener conto dell’irrompere prepotente delle tecnologie dell’informazione, nel passaggio tra il XX e il XXI secolo, nel mondo della pubblica amministrazione. Oggi, infatti, nello svolgimento di quasi tutte le attività individuali e sociali è indispensabile rapportarsi con le tecnologie digitali, con la conseguenza che ci si trova necessariamente ad entrare in contatto con il mondo delle regole informatiche che sono idealmente rappresentate dall’algoritmo.
Se ciò sconvolge le tradizionali regole della “burocrazia”, che per definizione è statica e restia ai cambiamenti, allo stesso tempo offre una grande opportunità di rinnovamento ed efficentamento dei procedimenti amministrativi nell’ottica di un uso sempre più invasivo della tecnologia informatica, sia sul piano della semplificazione dell’attività in senso stretto che su quello della gestione delle regole, della discrezionalità e dell’opportunità dell’azione amministrativa.
L’algoritmo come la burocrazia, quindi, pur avendo entrambi il carattere essenziale dell’applicazione di regole, di fatto occupano una posizione preminente nella società e nelle istituzioni. Che ne siamo consapevoli o meno, siamo governati dalle regole, siano esse burocratiche che algoritmiche ed entrambe esercitano su di noi un potere. E’ legittimo chiederci se queste “regole” sono tra loro indipendenti e procedono parallelamente oppure se si intersecano influenzandosi a vicenda. In altri termini esercitano lo stesso potere o si tratta di poteri diversi? In questo caso si integrano o entrano in conflitto? Che incidenza socio-politica hanno singolarmente o in reciproca relazione? (6)
Ma prima di tentare di dare una risposta a questi interrogativi e dopo aver chiarito i concetti di base sulle teorie della burocrazia, è necessario chiarire cosa è l’algoritmo sia dal punto di vista strettamente informatico che da quello, più allargato, delle implicazioni che esso ha nelle istituzioni e nella società.
L’algoritmo, in senso strettamente tecnico è, dunque, secondo il vocabolario Treccani, “qualunque schema o procedimento matematico di calcolo; più precisamente, un procedimento di calcolo esplicito e descrivibile con un numero finito di regole che conduce al risultato dopo un numero finito di operazioni, cioè di applicazioni delle regole”.
In realtà il concetto di algoritmo risale al IX secolo, quando un matematico persiano – Muhammad ibn Musa al-Khwarizmi – ne diede per primo la definizione che è rimasta pressoché invariata fino ai giorni nostri. Successivamente, Leibniz, nel XVII secolo, contribuì allo sviluppo dell’algoritmo con l’introduzione del calcolo infinitesimale e della macchina calcolatrice meccanica. Nel XIX secolo Charles Babbage concepì la “macchina analitica”, considerata il precursore dei moderni computer. Il matematico elaborò il concetto di “programma” come sequenza di istruzioni per una macchina meccanica. Negli anni quaranta del XX secolo Alan Turing sviluppò un modello teorico astratto di computer, stabilendo i fondamenti teorici dell’informatica moderna e delle sue possibilità di calcolo. Oggi gli algoritmi sono diventati strumenti fondamentali per risolvere problemi, automatizzare processi e gestire grandi quantità di dati.
La caratteristica intrinseca ed imprescindibile dell’algoritmo, inteso in senso tecnico e da tenere presente alla luce delle sue interazioni con i processi burocratici, è quella che i passi logici previsti dal programma devono essere seguiti necessariamente in modo preciso e conseguente per giungere alla risoluzione del problema specifico previsto dal programmatore.
Se da un punto di vista tecnico-informatico sembra non esservi alcun dubbio sul concetto di algoritmo e sulla sua rilevanza, lo stesso non può dirsi nel contesto filosofico, dove il concetto di algoritmo può essere considerato da diverse prospettive. In una visione deterministica, ad esempio, gli algoritmi, poiché rappresentano una serie di istruzioni meccaniche che seguono rigorosamente regole e condizioni predeterminate, se dovessero regolare le istituzioni e la società implicherebbero una ridefinizione del concetto di libero arbitrio e una visione riduzionistica della complessità della realtà.
In relazione all’intelligenza artificiale, inoltre, ci si interroga sulle implicazioni filosofiche dell’uso di algoritmi nell’elaborazione dell’informazione e nella creazione di sistemi intelligenti e, di conseguenza, sulla natura della coscienza, dell’intelligenza e della creatività umana, e se sia possibile replicare tali capacità mediante algoritmi. Ciò solleva importanti questioni etiche e di responsabilità. Ad esempio, gli algoritmi utilizzati per prendere decisioni automatizzate, nei sistemi di intelligenza artificiale o nelle applicazioni di analisi dei dati, possono introdurre pregiudizi, discriminazione o impatti negativi sulla società. Diventa quindi indispensabile anche se decisamente complesso bilanciare l’efficienza degli algoritmi con l’etica e la giustizia sociale.
Infine la relazione tra algoritmi, verità e conoscenza è piuttosto problematica: gli algoritmi possono fornire metodi per raggiungere la verità o per avvicinarsi ad essa? O sono semplicemente strumenti che operano su dati o informazioni senza implicazioni sulla validità della conoscenza prodotta? Gli algoritmi sono sempre presenti nel processo di produzione della conoscenza? Se sì, in che modo influenzano la creazione, la scoperta o la generazione di nuove idee o teorie? Come possono contribuire all’elaborazione delle informazioni e alla sintesi delle conoscenze?
Sebbene gli algoritmi siano strumenti logici e razionali, possono essere influenzati da pregiudizi umani o limitati nella loro comprensione o interpretazione dei dati, producendo dei bias che influiranno sull’output algoritmico. Ciò non toglie che possano contribuire al processo di raggiungimento della verità in diversi modi:
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Mediante l’elaborazione delle informazioni: possono, infatti, essere utilizzati per analizzare, organizzare e sintetizzare grandi quantità di informazioni. Attraverso l’elaborazione dei dati, possono aiutare a identificare pattern, correlazioni o relazioni che possono essere rilevanti per la comprensione di una determinata verità.
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Gli algoritmi possono seguire regole logiche o metodi deduttivi per estrarre nuove informazioni a partire da premesse o dati noti. L’uso di algoritmi di inferenza può aiutare a derivare nuove affermazioni o a stabilire connessioni logiche tra le proposizioni esistenti, contribuendo così al processo di verificazione della coerenza e della validità delle affermazioni.
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Gli algoritmi sono spesso utilizzati nella pratica scientifica per analizzare dati sperimentali, eseguire simulazioni o modelli complessi, o per condurre esperimenti virtuali. In tal senso possono aiutare a testare ipotesi scientifiche, confrontare risultati osservati con previsioni teoriche e fornire evidenze empiriche per determinate affermazioni.
Tuttavia, è importante sottolineare che gli algoritmi stessi non possono determinare la verità assoluta di una proposizione. Essi dipendono dall’accuratezza dei dati di input, dalle ipotesi e dai modelli utilizzati, e dalla correttezza delle regole di elaborazione. Inoltre, la verità può essere soggetta a contestazione o revisione critica nel contesto delle diverse discipline o delle comunità di conoscenza. La responsabilità umana nella valutazione della verità rimane quindi fondamentale. Gli algoritmi possono fornire strumenti e supporto nel processo di ricerca della verità, ma alla fine è l’interpretazione umana e la valutazione critica che determinano la validità e l’affidabilità della conoscenza prodotta, per evitare che l’influenza di un bias possa distorcere i risultati. Invero, essi tendono a riflettere i pregiudizi e le disuguaglianze presenti nei dati di input utilizzati per addestrarli. Se i dati sono sbilanciati o contengono pregiudizi o discriminazioni, gli algoritmi possono perpetuare e amplificare tali bias. Ad esempio, se un algoritmo di selezione del personale viene addestrato su dati storici che riflettono discriminazioni di genere, l’algoritmo tenderà a mantenere inalterate tali discriminazioni nel processo di selezione. Inoltre, sono costruiti su modelli semplificati della realtà e possono quindi non essere in grado di rappresentare in modo completo o accurato la complessità della società o dei problemi che affrontano; ciò può portare a semplificazioni e distorsioni nella comprensione dei fenomeni reali. Nel machine learning possono essere complessi e difficili da interpretare, rendendo difficile capire come un algoritmo arriva a una determinata conclusione o decisione. In questi casi l’opacità degli algoritmi può comportare mancanza di trasparenza e accountability, rendendo difficile individuare e correggere eventuali bias o errori.
Infine, gli algoritmi sono progettati e implementati da esseri umani, il che significa che sono soggetti agli stessi pregiudizi, errori e limiti umani. La responsabilità di garantire l’etica e l’imparzialità degli algoritmi deve ricadere sugli sviluppatori, sugli operatori e sui responsabili delle decisioni prese sulla base delle informazioni generate dagli algoritmi, ciò per evitare che l’uso degli stessi possa portare alla deresponsabilizzazione dell’Ente o del soggetto a cui fa capo la decisione finale (7).
Alla luce della sommaria descrizione dei concetti di burocrazia e di algoritmo e del cenno alla valutazione dei problemi che possono creare, si può cominciare a trarre una prima e provvisoria conclusione: la burocrazia e l’algoritmo hanno delle caratteristiche comuni che li rende quasi sovrapponibili o quanto meno complementari. Entrambi infatti costituiscono una risposta “automatizzata” alla richiesta di applicazione di determinate regole: nella prima costituite dalla procedimentalizzazione dell’attività amministrativa con una serie di passaggi necessari pena l’invalidità del prodotto finale, il provvedimento amministrativo; nel secondo costituite dalla sequenza di procedimenti informatici necessari, previsti dal programmatore, che conduce ad un risultato finale, l’output informatico. Nei prossimi articoli si tenterà di dare una risposta alle domande che ci siamo posti in questa introduzione per giungere a conclusioni più definitive e supportate da adeguata motivazione.
Note
Illuminante! Rilevo al riguardo che la conclusione induce ad un pessimistica prospettiva. Invero ho dedotto che l’algoritmo riproduce fedelmente la parte più desueta e meno moderna di quella burocrazia ottusa che si è cercato di superare. Attendo con ansia di conoscere quale soluzione verrà prospettata.